Sergio Rubini interpreta Gli occhiali di Šostakovic, un testo teatrale di Valerio Cappelli, che firma anche la regia, dedicato a Dmitrij Šostakovic, il grande compositore russo (1906-1975) vissuto durante il regime staliniano.
Lo spettacolo – che sarà in scena lunedì 24 marzo al Teatro Mercadante alle 21.00 – è arricchito da musica registrata, immagini, fotografie, arredi scenici, ed è una produzione Prima International Company di Angelo Tumminelli.
Šostakóvic ha avuto i massimi onori e le maggiori umiliazioni, ha avuto i funerali da eroe di Stato ma dormiva con la valigia accanto al letto, temendo di essere arrestato da un momento all’altro.
Šostakóvic è stato il compositore più decorato e frainteso, più premiato e minacciato. Ha dovuto fare i conti con i condizionamenti del potere, cercando di mantenere per quanto possibile la sua verità artistica… La sua vita è già, essa stessa, un corto circuito drammaturgico. Fu accusato dalla Pravda di formalismo, contravvenendo al diktat del partito comunista che chiedeva opere musicali patriottiche inneggianti al realismo socialista e all’ottimismo rivoluzionario. Gli commissionarono la Nona Sinfonia, doveva essere la risposta sovietica alla Nona di Beethoven, e lui compose un breve irriverente componimento di venti minuti. Della sua opera Lady Macbeth, la Pravda scrisse un articolo intitolato <Caos anziché musica>. E’ la Russia di Putin moltiplicata per mille.
Lo spettacolo debuttò a giugno del 2023 al RAVENNA FESTIVAL, interpretato da Moni Ovadia. Con l’interpretazione di Sergio Rubini ha debuttato al Teatro Malibran di Venezia la scorsa estate.
GLI OCCHIALI DI ŠOSTAKOVIC
(ONORI E TERRORI DI UN ANTIEROE)
note di regia di Valerio Cappelli
«Ho pensato agli occhi. Il mio primo pensiero è stato lo sguardo di Sostakovic, che sembra scivolare via e invece è impenetrabile, imperscrutabile, dietro le spesse lenti da miope. Sono gli occhiali di chi cerca di mettere a fuoco la verità occulta dal potere. E’ uno sguardo sul mondo in cui viveva. Ma c’è molto altro. I suoi occhi svelano un uomo passionale, buffo, irascibile, introverso, fragile, acido, timido, riservato, tenace. Tutto, in lui, è contraddizione. La vita di Dmitrij Sostakovic è, essa stessa, un corto circuito drammaturgico. Non era facile vivere, allora, certe notti e certe albe. Dormiva con la valigia aperta sotto il letto, temendo di essere arrestato da un momento all’altro, ed ebbe i funerali come un eroe di Stato. Sostakovic è il compositore più decorato e frainteso, più premiato e minacciato. <La verità è che sono sempre stato criticato, e ben venga la critica costruttiva>, diceva il compositore con la sua voce mite, ferma, asprigna.
Il musicologo Alex Ross nel suo best seller Il resto è rumore scrive che per lungo tempo si è discusso se egli fosse un compositore “ufficiale” che produceva propaganda a comando o un dissidente occulto che inseriva messaggi in codici antistaliniani nelle sue partiture. Il figlio del compositore, Maxim Sostakovic, nel documentario A Man of Many Faces, dice che suo padre non ha mai accettato compromessi. E’ la risposta che può dare l’amore di un figlio, perché con i compromessi talvolta ha dovuto convivere, scrivendo pezzi d’occasione. Ma non è mai stato un fantoccio dell’establishment: è stato, questo sì, profondamente sovietico, e ha sempre assecondato il suo fiuto artistico in una continua sfida, senza aver paura di scrivere una musica inusuale. E i compromessi non tolgono nulla alla sua grandezza, la cui essenza è immaginifica, rimanda a qualcos’altro, è come leggere un romanzo di Gogol, tra il grottesco e il fantastico, è una continua metamorfosi, un moto perpetuo tra legni laceranti, ottoni aspri e sfarzosi, una vorticosa danza macabra, brutale, ora onirica ora misteriosa e ipnotica.
E’ un montaggio di note che assemblano discontinuità stilistica, straniamenti, parodie e una strana energia mistica.
In questo spettacolo, come in un gioco di specchi, con Sergio Rubini abbiamo provato a rimontare queste note con la sua vita, attraverso le sue parole e la sua musica. Ho scelto musiche iconiche, adatte al momento descritto nella drammaturgia. E’ uno spettacolo con una dimensione storica, tra parole, note, arredi scenici, fotografie, immagini. E’ un racconto in presa diretta dove la voce di Sostakovic si fa filtro di un’epoca tragica. Non è un itinerario cronologico. Sono flash, basati su appunti e documentazione autentica sulla vita di un gigante della musica che ha lottato con i fantasmi del suo tempo, con cui ha dovuto venire a patti, e con i suoi fantasmi: penso a certe dichiarazioni enigmatiche sui propri lavori, mentre sulla vita personale era più riservato. L’immaginazione si è nutrita di saggi e romanzi, oltre alle lettere che Sostakovic scrisse in maniera compulsiva e ossessiva per un cinquantennio: Sostakovic di Piero Rattalino; Sostakovic di Franco Pulcini; Testimonianza. Le memorie di Sostakovic raccolte e curate da Solomon Volkov (l’allievo che qui e là aggiunge il proprio punto di vista e la suggestione a volte predomina, causando qualche mal di pancia a persone vicine al compositore); Il rumore del tempo di Julian Barnes; Sinfonia Leningrado di Sarah Quigley.
L’intento è quello di restituire anche il sapore dell’epoca, ma anche della Russia di oggi, in una musica che riflette il tempo drammatico in cui è stata scritta: la Settima Sinfonia, composta durante l’assedio di Leningrado, divenne un simbolo della resistenza all’invasione nazista, e nello spettacolo quelle note saranno accompagnate da immagini su quell’assalto di 900 giorni che incontrò una resistenza stoica, inaspettata; scrisse l’Ottava Sinfonia nel 1943, raccontando il cataclisma bellico.
Racconta, non spiega, Sostakovic non è mai descrittivo: eppure nell’Ottava Sinfonia si “vedono” quasi i palazzi bruciare sotto i bombardamenti, e nel terzo movimento la tensione diventa parossistica. Non c’è politica esplicita nelle sue Sinfonie, ma ne resta un alone forte in quel mare in tempesta: le purghe, la guerra civile, la guerra contro Hitler; tantomeno si prestano a essere, con sparute eccezioni sui dorati campi di grano lavorati dai contadini, o sugli operai, cassa di risonanza delle fanfare retoriche e patriottiche. La sua musica è allo stesso tempo il diario della sua esistenza.
Aveva 29 anni, Sostakovic, ed era già una stella della musica russa, quando Stalin si sedette al Bolschoi per seguire una replica della sua Lady Macbeth del distretto di Mcensk. La storia di una casalinga che si lascia dietro una scia di cadaveri, fu ritenuta il frutto di una deprecabile sensibilità piccolo borghese. Non era certo in linea con le direttive di Stalin, secondo il quale il linguaggio musicale doveva essere “chiaro, accessibile e vicino alle masse”. Lo sperimentalismo era inutile ai fini della propaganda. Due giorni dopo, La Pravda, organo ufficiale del partito Comunista, recensì lo spettacolo con un articolo intitolato Caos anziché musica: “A quanto pare il compositore non ha minimamente tenuto conto di ciò che il pubblico sovietico cerca e si aspetta dalla musica”. E ancora: “Si tratta di uno scherzo di astuta ingenuità che può finire molto male”.
Il Terrore di Stalin era prossimo, un potere che si fondava sul culto della personalità e sul controllo implacabile della libertà d’espressione. Sostakovic cominciò a scoprire cosa significava fare una brutta fine, essere artista e liberare la propria creatività mentre centinaia di migliaia di cittadini venivano arrestati, giustiziati, deportati, oppure sparivano nel nulla. Il cognato, la suocera, la sorella e uno zio vennero incarcerati.
E’ una musica scritta sotto la paura che attanagliava il più grande paese del mondo per estensione geografica. In quel mondo che andava a rotoli, questo gigante della musica ha cercato di sopravvivere, come farebbe qualunque altro essere umano. “Di volta in volta egli”, come scrive Francesco Maria Colombo nel suo saggio L’aristocratico di Leningrado, “è un pavido, un coraggioso, una vittima, un eroe: il suo rapporto col Cremlino, che lo premiava e lo minacciava, ne faceva un ambasciatore culturale all’estero e lo censurava in patria”.
Il caso Sostakovic è paradigmatico del rapporto tra arte e potere. Forse arriverà un tempo in cui si dirà che Stalin è stato un politico di primo piano dell’età di Šostakovic.»
SUONI
DI SIRENA, CINGOLATO, TRUPPE IN MARCIA
MUSICHE REGISTRATE: circa 15 minuti (compresi i valzer di inizio e chiusura)
Valzer n 2 (da Jazz Suite): quando il pubblico entra in sala.
Valzer op 105 (dall’operetta Mosca Ceremuski): da minuto 3,30 a 5,00. La musica alla fine viene ripetuta più volte.
Quartetto n 8
Sinfonia n 5
Sinfonia n 5
Sinfonia n 11
Sinfonia n 12
Sinfonia n 8
Sinfonia n 11
Sinfonia n 10
Sinfonia n 10
Sinfonia n 5
Sinfonia n 5
Sinfonia n 7
Quartetto op 15
Sinfonia n 10
Sinfonia n 15
Durata dello spettacolo: 1h e 15